mercoledì 28 maggio 2014

Knights of Cydonia

di Daniela Pasiphae 




Discendono da monti mai esistiti,
percorrendo strade di stelle.
E bruciano come giraffe daliniane,
impassibili come nulla fosse.

Soffrono l'ipocrisia,
sono stati mandati da Dio.

Tutti creati per morire,
cantando false note di vita.
Soffriamo amori irraggiungibili,
come fossero un diritto.

Speriamo nel sesso,
come fessura verso la salvezza.

Dio non ci voleva,
voleva solo conoscersi.
Non ci si conosce che nella dualità,
l'osservatore giudice.

Potrai perdonare
tutte queste false pene?

I Cavalieri di Cydonia,
reali quanto questo sangue blu.
Ameremo anche i nostri fantasmi
o continueremo ad odiare?

Dio non perdona,
non contempla errore, mai.

Moriremo come lumache,
stuprate dal sale.
Qualcuno riderà e piangerà perle,
assistendoci stoico.

Ego liquefatto,
nessuno saprà mai niente.

Conosceremo la Via,
nessuno resterà fuori.
L'immensità ha già grattato e vinto,
è una lotta impari.

Non abbiamo certezze,
teniamoci strette queste illusioni.

lunedì 19 maggio 2014

Mostricando

di Daniela Pasiphae



Incastonata in un crepaccio,
sul fondale di un oceano senza amore,
ho imparato a parlare coi mostri marini.

Sovente curo loro i denti aguzzi
affinché possano agguantare qualche anima in superficie
e trascinarla da me, ferita e indifesa, a farmi compagnia.



sabato 17 maggio 2014

Non seppi mai cosa fosse l'amore..

di Daniela Pasiphae
serie "AWARE"



Torakiki non era ancora rientrato e cominciavo a preoccuparmi. Camminavo avanti e indietro sul pianerottolo. Su e giù come una merla indaffarata a farsi il nido, fin tanto che Heidi, che aveva appena finito si pittarsi le unghie con uno smalto sudicio e catramoso trovato in un cassetto qualche giorno prima, si alzò in piedi e venne verso di me con passo deciso e poco cordiale.
"Credo che dovresti smetterla di preoccuparti per lui!" disse ad alta voce affiché tutti gli affacciati alla tromba delle scale potessero sentire. "Dopotutto" continuò "lui non ricambia i tuoi sentimenti, è evidente!"

Guardai sul pianerottolo al piano di sotto. Stavano Maia e Magà, le due sorelline nere, le più piccole della nostra comunità. Mi guardavano, affamate, forse un po' felici di avere qualcosa da fare per dimenticarsi che non mangiavano da quasi due giorni. Ascoltavano Heidi che farfugliava astratti concetti sull'amore terreno e massime rubate a qualche ubriacone dei bei tempi andati.
"Ama chi ti ama, non amare chi ti sfugge, ama quel cuore che per te si strugge.. disse..." batté un piede per terra, forse provando a ricordare o a farsi ascoltare "...disse...chi diavolo lo disse?" domandò seccata.
Shakespeare, ma non glielo rivelai. In realtà non volevo che smettesse di parlare perché quel silenzio che calava durante il giorno, quando gli uomini uscivano per cercarci del cibo, era la sensazione più straziante che avessi mai vissuto. Era perfino più angosciante delle notti passate fra le braccia di mia madre sapendo che da un secondo all'altro saremmo potute morire in qualche esplosione o dell'attimo in cui, ingerendo qualche sorta di cibo che riuscivamo a raccattare, non sapevamo se ci avrebbe saziati o uccisi. Niente era così angosciante come l'attesa degli uomini che uscivano a cercare il cibo, perché non si trattava solo di una questione di pura sopravvivenza legata allo sfamarsi, ma c'erano sopra mille diverse emozioni sul sentirsi protette e sicure che noi donne (non tutte) avevamo conservato. C'erano le serate raccolti tutti insieme intorno al fuoco a cantare, quando la musica era ormai la sola sfumatura di umanità che ci avessero lasciato. C'erano i corpi caldi ed eccitati di quando, per non morire di freddo, si dormiva tutti assieme e stretti l'uno addosso all'altro. C'era che speravo facesse freddo per farmi abbracciare, perché gli uomini ci concedevano affetto solo quando il loro donarsi poteva essere giustificato agli occhi degli altri come una necessità. Allora, curare un'ammalata o abbracciarla per non farla morire di freddo, era contemplato, non lo erano invece le coccole fini a loro stesse. Non lo erano i sorrisi, se non motivati da qualcosa che facesse davvero ridere.

La devastazione ci aveva lasciati come bestie vagabonde. Costretti a smettere di provare emozioni perché i sentimenti corrodevano le ferite ed arrivavano all'osso e, senza neanche lasciarci la possibilità di controbattere, ci ritrovavamo in fin di vita. La depressione aveva ucciso più di quanto la guerra non avesse fatto. Le persone morivano quando si lasciavano scavare dai sentimenti perché, nel tentativo di difendere la loro posizione di fronte al mondo e il loro diritto alla sofferenza, cercavano di concretizzare le loro ideologie. Si rendevano martiri per provare che la sofferenza esisteva davvero.

Io ero una di loro. Ero il lupo che si struggeva sotto la luna e la madre urlante che deponeva il cadavere del figlio dalla croce. Ero quella che si ammalava per farsi abbracciare, che soffriva di continui raffreddori quando doveva costringersi ad una separazione, ed ero quella che aveva deciso che, se Torakiki non sarebbe tornato entro il mattino seguente, sarei andata a cercarlo, ben sapendo che avrei rischiato la morte e felice di lasciare questo mondo tenendo alto lo stendardo di quell'agognato rapporto sessuale fra amore e sofferenza.

Shiro, Conan e il piccolo Goku erano tornati da ormai tre ore riferendo che Torakiki si era allontanato senza dire nulla e che da quel momento l'avevano perso di vista.
I nostri nomi erano stati prima ignorati, poi incendiati ed, infine, dimenticati. Avevamo scelto di darci dei nomi dei nostri cartoni animati preferiti e così anche i nuovi arrivati dovevano fare lo stesso. L'ultimo arrivato, di appena ventitré anni, era appunto Goku.
Io mi chiamavo Memole.

Quella notte non dormii. Appena albeggiò mi infilai quella piccola armatura leggera che indossavo durante gli spostamenti che compivamo una volta al mese. Lo feci mentre tutti dormivano. Poi spalancai la porta senza destare nessuno, mi immersi nella nebbia e mi affidai alla morte.

Nei giorni in cui girovagai in cerca di Torakiki, capii che era davvero assurdo quello che avevo deciso di fare. I primi due giorni provai a sentirmi una persona migliore degli altri. Camminavo fra le macerie di vite altrui e mi chiedevo se qualcuno avesse mai amato così tanto quegli individui ormai diventati ossa da dare la vita per loro.
Ma, il quarto giorno, prima di accasciarmi al suolo stremata e lasciarmi uccidere dalla sete, mi resi davvero conto di una cosa: nessun amore per il prossimo ha davvero senso se prima non c'è amore per sé stessi. Sembrerà anche banale, ma io lo capii davvero. Non fu solo una frase detta da non so chi. Fu una presa di coscienza.

Me ne resi conto perché, mentre annaspavo nella sabbia, mi domandai chi avrebbe amato Torakiki dopo la mia morte. Mi accorsi che non possiamo amare e coccolare nessuno se non possediamo un corpo e una mente sani e in grado di aiutare davvero gli altri. Mi accorsi che l'ansia di mostrarmi innamorata mi aveva condotta alla morte, mi aveva distolta da ogni ragionamento lucido e spinta a creare un valore pratico al mio soffrire estatico. Quale miglior compimento, infatti, di una morte che riempie di valore agli occhi di tutti quella che prima era solo un'idea di sentimento messa in dubbio in primis da me stessa e in secundis da tutto il mondo?

La mia morte incoronò la Principessa Idea facendola diventare la Regina dell'Amore. Ma solo nei miei pensieri. Ciò bastò a farmi lasciare il corpo con un velo di malinconia.

Morii sperando che qualcuno avrebbe considerato la mia morte come un gesto d'amore, ma ben conscia che niente di quello che facciamo nella materia può veicolare un sentimento così aulico come l'amore.

Morii non sapendo che Torakiki era rientrato quella mattina, poco dopo la mia dipartita, e che non solo non si era preoccupato di venirmi a cercare, ma che aveva dichiarato il suo ardente interesse per Heidi, rivelandole che si sentiva finalmente libero e privo di colpe che invece gli avrei caricato addosso io nel qualcaso avesse confessato il suo interesse per un'altra in mia presenza.

Non seppi mai cosa fosse l'amore, ma credere di averlo saputo è stato comunque divertente..




mercoledì 14 maggio 2014

La morte della chimera

di Daniela Pasiphae



Temporeggia il condor sulla carogna,
mentre lo zombie femmina, traballante,
scavalca le soglie della mia fortezza et
ghermisce anime sbottando in grasse risate.
(grasse da far schifo)

Si accascia al suolo e ride piangendo,
trasuda sangue e vorrebbe scannarmi.
Ingoiarmi. Inglobarmi.. Condividersi et
si contorce ignava perché sa che non mi avrà.
(che non mi ha mai avuto)

Le infilo le dita nei buchi del cranio,
graffio il mio nome sulla corteccia cerebrale.
Non mi importa se le fa male, incido a forza et
violento le sue credenze affinché si senta inutile.
(amo le sue cose ma non lei)

Cavalco per un mese un tornado disegnato,
narro vicende di folletti spremuti come limoni.
Nettare ballerino con barba, cappello a punta et
un briciolo di galanteria giusto per renderlo credibile.
(non so, una giacca ceduta)

E la chimera si struscia sui miei calzari,
il leone mi narra di saggi filosofi ed asceti.
Il drago mi mostra i denti, la sua gola profonda, et
el cabròn me hace sentir amado y inteligente.
(tanto poi lo decapiterò)


Mi agguanta con le unghie unte di dolore,
mi sussurra dolci nenie sibilanti all'orecchio.
Velenose e viscide, calpestate da zoccoli neri et
cerca le mie labbra come un capezzolo, un bimbo.
(putrido intento, vomito)

Non ho più gustato carne da quel giorno,
occhi. Ma a cavar il cuore ad umane son bravo.
Accompagno l'articolata belva al mio fianco et
la tocco come fossimo amanti. La penetro.
(ma non mi piace, gelo)

Al leone districo regalmente la criniera,
al rettile di carbone infilo due dita in gola.
E sgozzo la madre dei cuccioli belanti et
ne bevo il rubineo sangue sgorgante dal petto.
(lentamente, molto lentamente)

Arranca la fiera, come un toro ferito,
ma a me occorre quel sangue. Ne ho bisogno.
Vacilla la mia crudeltà in quel tripudio di dolore et
odo inumane urla che non placheranno la mia sete.
(io devo vivere, io e solo io)

Mi interpellano i santi ma vestono di rosso,
altri sono nudi e parlano una lingua che non so.
Mi si avvicina un angelo dai denti aguzzi et
mi strappa le orecchie affinché possa sentire.

(questo non è il paradiso, dice)


domenica 11 maggio 2014

Ma veramente.. io..

di Daniela Pasiphae 


Allora forza adesso vestiti bene
Imbrattati la faccia di pittura
Strappati i peli cucendoti la coscienza
Non dire a nessuno che non vai bene
Ma fingi
Spingi
Ma dipingi
Dipingiti la faccia
Strappati la bruttezza di dosso
E ricopriti di falsità
Perché a tutti fa meno paura

Allora forza, dai
Costringi un bambino sano
A diventare un essere umano
Digli come deve pensare
Fare, amare
Pisciare

Sto in piedi prenditi i miei momenti
Resto ferma Rubali
Sto..
Insegnami l'inno dei maledetti
Dimmi come fa
Urlami dentro

Prenditi questo momento
Te lo regalo, io ne ho tanti
Prenditi questa cosa ma non darle un nome
Tanto morirà e sarà comunque "boh"..

Ti regalo questa goccia che esce dai miei occhi
Ti dono questo velo che ricopre le mie membra
Prenditi tutte le immagini di me
Mostrami che in fondo
Non ha senso amare un soggetto
..soggetto.. ad alterazioni
 Ma dai, cazzo, cantami le tue canzoni

Dove vai ..aspetta
Ma veramente io...
Veramente non lo so
Provavo solo ad assomigliare a Dio
Per poi scoprire che Satana esiste davvero
 Ma veramente io.. Ma veramente Dio...
Dio ma veramente tu mi preferisci così?
Davvero tu ami un... Davvero ami? Amore...

Amore fai così
Amore mettiti lì
Amore solo se
Solo se baci
Solo se ridi
Amore in un cantiere
Fai questo, fai quello
Ma vattene lontano!

Anzi no vieni qui
Non lo so, resta lì

Ah ma te ne vai già?
Ah ma...ma veramente..
Veramente io credevo..
Veramente io pensavo
Ma.. Veramente io..
Io veramente..
 
Ti ho giusto appena sfiorato
Aspetta.. Dai

Un volo ad ali chiuse
Aspe..

Una rosa senza odore
Asp..

E tre secondi di dolore
A..

..llora ciao

ci sentiamo. 

lunedì 31 marzo 2014

Rachel - Ep. 6

di Daniela Pasiphae

<< Episodio 1
<< Episodio 5


Faceva sempre così quando qualcuno le si avvicinava troppo.
Non parlo di vicinanza fisica, quella la accettava e le serviva e la tollerava bene.
Quello che non riusciva a sopportare, inconsciamente, erano le persone che si avvicinavano troppo al suo essere intimo ed inconscio, alla sua anima e a quello che era veramente lei come persona.
Le capitava allora di entrare in conflitto con se stessa e di creare migliaia di occasioni per fuggire.
Lo stesso faceva con tutte le cose che potevano darle felicità.

Col tempo si era resa conto che il suo atteggiamento era addirittura patologico. Non appena qualcosa le si avvicinava quel poco da darle l'idea che sarebbe potuta essere felice ed amata, lei lo distruggeva. Distruggeva in modo sistematico e lo faceva sempre nel modo migliore, cercando cioè di non sembrare che la responsabilità fosse sua. Dare la colpa agli eventi e al fato era la sua specialità.

Un'altra attività, in parte parallela, che amava tanto fare era quella di mantenersi sempre una via di fuga. Cercava sempre di guadagnarci qualcosa ma senza rischiare. Creava strutture secondo cui pareva che fosse in gioco quando, in realtà, manteneva sempre un piede in salvo, pronto per ritrarsi al primo accenno di vuoto.

Quello che Rachel temeva era il vuoto dell'abbandono. Il rifiuto. Il nulla.
Temeva di donarsi a chi poi non l'avrebbe compresa, temeva di aprirsi con chi non avrebbe mai saputo intersecarsi con la sua dolcezza e, più di tutto, temeva di mostrarsi com'era a chi non avrebbe mai e poi mai compreso che, dietro ai suoi modi da dura ed anaffettiva, si nascondeva solo una grande paura di mettersi in gioco e di lasciarsi voler bene.

Rachel giustificava il tutto appellandosi al fatto che i suoi genitori l'avevano sempre fatta sentire una reietta, non voluta, non amata, poco considerata.
Un bimbo viene al mondo col solo desiderio di amare ed essere amato, di ridere e di scherzare, e ben presto impara che non c'è niente da ridere, c'è poco da amare e c'è molto da piangere.

Lasciò Cris e la casa dei suoi genitori ancor prima che essi tornassero.
Rivederli la metteva in uno stato di soggezione. C'era il rischio che potesse scoprire che li voleva abbracciare ma che non sapeva come fare.

In aereo, durante il suo viaggio di ritorno, si ricordò di quando a diciott'anni, per la prima volta, col suo primo fidanzatino, si erano abbracciati. Lei non riusciva ad abbracciarlo, a lasciarsi andare e non riusciva nemmeno a farsi abbracciare. Rimaneva pietrificata, come se qualcuno le volesse fare del male. Non sapeva ricevere né tanto meno stringersi ad un altro corpo. Stephen, il ragazzo che la cingeva a sé, la accarezzò dicendole con estrema dolcezza "Povera, non sai neanche abbracciare..." poi la strinse forte sussurrandole all'orecchio "Lasciati andare...nessuno ti farà male..." e da quel giorno Rachel cominciò a rischiare, per la prima volta dopo tanti anni.

Sì qualche volta le capitò anche di soffrire, di essere rifiutata, ma gli attimi che trascorreva mentre faceva fluire amore dal suo corpo verso un'altra creatura e quelli in cui riceveva affetto e amore, valevano sempre e comunque il rischio di un rifiuto.

lunedì 24 marzo 2014

Ero uno Scheletro

di Daniela Pasiphae
serie "AWARE"



Ero uno scheletro e stavo sempre per terra. Ero proprio ossa e nient'altro. Non avevo tendini, non avevo muscoli, non avevo organi e non avevo neanche la volontà di alzarmi e di cercarli.
Sapete, non ero sempre stato così, una volta ero stato un bellissimo ragazzo che faceva sport e avevo la fila di belle ragazze che volevano venire a letto con me. Ma io non le volevo, non volevo essere felice e volevo avere problemi.
E così, piano piano, mi sono lasciato spolpare. Depredare di ogni brandello di me. Tutti prendevano, io davo. Non era generosità, era desiderio di morire in fretta. Era anche un po' di falsa credenza che, se avessi ceduto agli altri ogni parte di me, allora forse avrei avuto un senso in questa inutile vita. Forse mi avrebbero voluto bene. Volete sapere a chi ho ceduto me stesso? Seguitemi, ve lo racconto.
Un giorno me ne stavo disteso su quel prato. Era qualche anno che ero lì disteso. A volte cambiavo un po' posizione, ma poco perché avevo sempre meno forze per muovermi. Ad un certo punto un piede mi calpestò.


Non era la prima volta che un piede mi calpestava ma quel giorno fu la prima volta che mi venne chiesto scusa. Lei passò, aveva dei bellissimi capelli ramati, mossi dal vento, e un vestito bianco che sembrava la veste di un angelo. Mi passò sopra, mi calpestò un ginocchio, ma fu bello. Non mi scricchiolò nemmeno la rotula da quanta grazia ebbe nel calpestarmi. Ma poi accadde una cosa incredibile. "Oh!" disse, spostandosi subito dalla mia gamba, portandosi una mano alla bocca, in quel gesto stupito e dispiaciuto. Poi si chinò incuriosita, mi guardò bene da vicino e poi, sottovoce, mi disse "Scusa, non volevo calpestarti!".

Avessi avuto la pelle l'avrei sfiorata.
Avessi avuto una bocca l'avrei baciata.
Avessi avuto un cuore l'avrei amata.

Desiderai una mano per toccarla e sentire il suo calore.
Desiderai un corpo per premerlo addosso al suo.
Desiderai un po' di voce per dirle quanto fosse bella.

Provai ad allungare una mano, provai ad alzarmi, ma non potevo, non riuscivo.
Riprovai di nuovo, ma come potevo?
Dopo qualche ora ancora provavo ad alzarmi, ma non ci riuscivo.
Ero solo un mucchio di ossa.

Allora accadde.
Guardai con le orbite in cielo e chiesi con tutta la forza che avevo di poterla toccare.
Lo chiesi con tutto me stesso, o quel poco che ne restava. E così accadde.
Improvvisamente sentii come una grande forza, potente. Un'energia che non sentivo da anni o che forse non avevo mai sentito. Una spinta ad alzarmi e una voce nella scatola cranica mezza vuota che rimbombava dicendomi di alzarmi.
Mi alzai e notai sbalordito che potevo muovermi. Potevo vedere, potevo sentire e potevo camminare e, dalla felicità, scoprii che potevo anche saltare. E allora cominciai a correre, a cercare quella bellissima ragazza che mi aveva considerato. Aveva considerato un mucchio d'ossa con amore e io la volevo stringere.

Cominciai a correre in giro dappertutto, correvo da ogni parte in cerca di quella ragazza di bianco vestita.
Ero così preso dal cercare il suo volto che non mi accorgevo che la gente, quando mi vedeva, fuggiva.
Corsi così tanto che venne notte e ancora non l'avevo trovata.
Mi fermai sotto un albero perché era troppo buio e non vedevo nulla.

E così mi parlò un gufo.

I gufi sono saggi, ma nessuno li sa ascoltare. Pensano siano solo uccelli. I più audaci li chiamano rapaci.
"Non troverai mai nessuno messo così come sei. Ti sei chiesto che effetto le faresti se ti vedesse così? Ti sei visto almeno?"
Mi guardai le mani, potevo contare le falangi una per una. Poi guardai indignato il gufo e risposi infastidito:
"Ora ho capito perché si dice "gufare!"... tu non credi nell'amore! L'amore vede oltre l'apparenza e oltre l'aspetto esteriore!"
Il gufo allora scese dall'albero e mi volò accanto, appollaiandosi sulla mia clavicola.
"Non è una questione di aspetto esteriore, amico mio! E' una questione di amore. Guardati, come ti sei ridotto.. Ti sei amato così poco che ti sei lasciato depredare di ogni cosa e ancora continui a non preoccuparti di chi sei, di cosa sei e di cos'hai da dare. Sei in cerca di amore, ma non ti ami. Non lo puoi ricevere, non lo vuoi ricevere, perciò non lo avrai!"

Tacqui e mi osservai. Come posso toccare questa donna?, pensai, non ho i polpastrelli e forse neanche la sentirei. Magari le graffierei la pelle. Come posso baciarla se non possiedo una bocca?
E come posso amarla se non possiedo cuore?
 
"Hai ragione gufo!" gli dissi "Troverò quello che mi è stato tolto e poi andrò da lei!"
"Sì ma..." il gufo provò a parlare ancora, ma io ero già corso via, e senza neanche tanto ringraziarlo perché non avevo tempo, dovevo trovare il mio corpo per darlo alla donna che amavo.
Cominciai andando da un mio vecchio amico. Questo possedeva un po' dei miei muscoli che gli avevo dato per giocare a calcio. Quadricipiti, polpacci, addominali e qualche pezzetto di gluteo e di dorsale. Stavo per rimettermi gli addominali quando pensai che forse dovevo partire dagli organi interni, per evitare di dover poi strapparmi gli strati superficiali una volta trovate le viscere.
La peggior cosa era rivedere mia madre, ma tutte le mie viscere le possedeva lei. Aveva lo stomaco che aveva rimpinguato per anni cercando di farmi ingrassare per non permettermi di riuscire a trovare una donna, cercando di farmi restare sempre con lei. Aveva il mio fegato che aveva fatto ingrossare a suon di cattiverie dette contro di me. Aveva i miei polmoni che aveva oppresso e contorto per anni, non lasciandomi i miei spazi. Aveva i miei intestini che aveva contribuito a far contorcere mettendomi ansia e paura per ogni cosa. Questi, quando avevo deciso di non essere più un uomo, glieli avevo lanciati addosso come si lanciano gli avanzi a un cane legato in giardino.
Suonai alla sua porta e lei mi aprì. Tesi la mano e le chiesi quello che era mio di diritto.
Lei si mise a ridere e, richiudendomi in faccia la porta, mi disse "Devi chiedermele col cuore!"
Era un problema, il mio cuore era ancora dalla mia ex fidanzata. Una donna che l'aveva strappato e messo in una teca di vetro e che ogni tanto si divertiva a punzecchiarlo e a tagliuzzarlo. Ma non era colpa sua. Ero io che glielo avevo consegnato, la responsabilità era mia e solo mia.
Suonai alla sua porta e mi aprì il mio migliore amico. Mi disse "Hey, come ti trovo male!" Non sapeva che io sapevo. Credo che lui e lei si frequentassero anche mentre ero ancora io il di lei fidanzato.
"Rivorrei il mio cuore!" le dissi quando si affacciò alla porta. Ma lei mi sorrise e mi disse "Davvero lo vuoi?".

"Certo che lo voglio!" esclamai convinto! E allora ecco che il mio cuore cominciò a pulsarmi in petto.
Mi grattai la calotta cranica e la ringraziai. In quel momento provai una bella sensazione nel vederli così, abbracciati davanti alla porta mentre io me ne andavo. Ero quasi felice per loro.

Che cosa strana.. Vabbè..

Tornai a bussare alla porta di mia madre, pretendendo quel che era mio di diritto.
"Me lo devi chiedere con amore!" mi disse stizzita. Infastidita da quel mio pretendere senza affetto.
Ma io la odiavo. Quando pensai che la odiavo, mi accorsi che la mia scatola cranica non era vuota come avevo sempre creduto.
Il cervello l'avevo sempre avuto. Non tutto, solo una parte. Quella sinistra.
E questa odiava  e pretendeva e serbava rancore per mia madre perché ricordava che lei mi aveva fatto del male, tanto male. E più chiedevo,  più lei mi snobbava e mi derideva e pretendeva amore. Sembrava ci godesse nel ricattarmi. Avrei voluto farle del male, ma sapevo che non potevo.

"Perché pretendi affetto?" le chiesi. "L'affetto non si può pretendere!" Pensai fra me e me che lei fosse davvero l'ultima persona a poter pretendere affetto da me. Fu in quel momento che mi resi conto di essere come lei. Una persona priva di amore che non riesce a donare ciò che crede di non aver ricevuto.
Mi ricordai che poco prima avevo provato amore per la mia ex e il mio amico e allora guardai mia madre e vidi una donna che voleva essere amata, ma non sapeva come lasciarsi amare.
Mi avvicinai, la abbracciai. Lei mi scacciò ed io camminai lontano da lei amandola e pregando che capisse che non la odiavo.
In quel momento mi rispuntarono polmoni, intestino, fegato e altri organi e viscere interni. Qualche muscolo, anche del volto e qua e là.

Ora sembravo una specie di zombie non morto, ma cominciavo ad avere un aspetto più umano. La maggior parte dei muscoli e dei tendini e di tutto quello che componeva la fisicità esterna del mio corpo, li deteneva mio padre. A lui avevo dato mani, braccia, gambe e tutto quello che avevo potuto dare per aiutarlo quando lui, a causa della sua malattia, era rimasto infermo a letto ed io avevo dovuto aiutarlo a non far fallire la sua attività. Ma tanto lavorai e senza ricevere mai un grazie. Lavoravo e non venivo gratificato. Mai.
Poco prima che lui morisse io, talmente ero affranto per la sua malattia e per come mi sentivo usato, lasciai tutto. Gli diedi gambe, braccia, occhi e naso ed ogni parte di me, e cominciai ad andarmene, deperendo giorno dopo giorno.
Lui morì ed io continuai ad odiarlo per non avermi mai ringraziato e mai amato.

Non mi aveva mai amato, mi aveva sempre e solo usato.

 Arrivai alla sua tomba ed era la prima volta che la vedevo. Ma ormai avevo capito l'antifona.
Mi inginocchiai e pregai. Pregai così tanto, piansi e lo perdonai. E quando mi accorsi che avevo gli occhi, era già da un po' che stavo piangendo. E quando mi asciugai le guance con le mani, era già un bel po' che avevo di nuovo le mani. E così quando mi alzai e sentii la terra umida sotto i miei piedi, era già un bel po' che avevo i piedi.
Cominciai a camminare e piano piano iniziò a riformarsi la pelle, i peli, i capelli.
Camminavo e ringraziavo Dio e il mio corpo tornava ad essere quello di un tempo.

Poi una donna urlò e allora mi accorsi di essere nudo ed iniziai a correre così forte come non avevo mai corso. Entrai in una lavanderia e presi qualche abito, contando di restituirlo.
Ormai ero pronto, dovevo solo trovarla. Mi pettinai, mi vestii bene, sedetti su una panchina con le mani unite ed attesi.
Dopo due giorni, però, ero ancora lì, per giunta affamato. Allora cominciai ad arrabbiarmi con Dio perché ero diventato un uomo, ma lui non aveva condotto da me la mia Eva. Mi alzai, un po' indispettito, e pensai che allora mi sarei arrangiato!
Cercai per quasi due settimane e alla fine la trovai, era in un negozio di dischi con un'amica.
Indossava ancora un abito bianco e aveva ancora i capelli color rame.
Mi avvicinai e le dissi "Ciao, sono lo scheletro che hai calpestato venti giorni fa, volevo solo dirti che sono innamorato di te, che voglio toccarti, baciarti e fare l'amore con te!"

Non potete capire cosa accadde. L'inaccadibile.

Cominciò ad urlare così forte che mi guardai subito le mani, credendo di essere ritornato uno scheletro!
"Sei uno sporco, volgare, impertinente idiota!" mi urlò. Poi se ne andò stizzita pronunciando queste parole:

Eri più umano quando eri uno scheletro!

Ragazzi lo disse. Lo disse davvero!

Caddi a terra in ginocchio, iniziando a chiedermi cosa avessi di sbagliato. Cosa avrei dovuto fare che non avevo fatto o cosa avevo fatto che non avrei dovuto fare? Ero disperato, non potete capire. Non potete. Era come se mi avessero tirato addosso il mondo ed io vi fossi rimasto incastrato sotto.
Pazzo, ero impazzito. Corsi per qualche chilometro ed infine, lontano dalla città, lo feci. Cominciai a togliermi tutto e a tornare scheletro. Aveva detto che mi preferiva scheletro e allora sarei tornato scheletro.
Mi spolpai fino all'osso e tornai da lei. Ma accadde esattamente quello che temevo.
Non solo urlò lei, ma anche tutta la gente per strada che ci stava intorno.
"Vattene, sei orribile!" mi urlò.
Fu la sensazione più brutta della mia vita. Più brutta perfino di quando mi regalarono l'uniforme di San Francesco per carnevale, con un cerbiatto finto attaccato alla tonaca, e anche più brutto del momento in cui il mio compagno di banco, vestito da Darth Fener con una spada laser più grande di lui, mi minacciò davanti a tutti i genitori di decapitarmi il cerbiatto, stimolando una fragorosa risata fra tutti i genitori accorsi per la festa di carnevale.
Cosa dovevo fare? Me ne andai.
Desiderai la morte, ma mi resi presto conto che non potevo. Non potevo decidere di morire.

"Forse il tuo percorso non è giunto al termine!"
Era la voce del gufo.

Ero finito di nuovo sotto l'albero di quello stupido gufo.
"Lasciami in pace! Mi avevi detto che non avrei mai trovato nessuno perché ero impresentabile! Sono diventato bellissimo e lei non mi ha voluto. Le ho confessato il mio amore e lei ha urlato!"

Il gufo mi si appollaiò con una zampa sull'ulna e una sul radio. "Vedi.." disse "..per amare non basta un bellissimo corpo, né una bellissima mente, né la schiettezza, né i soldi..."
"E allora cosa serve?" chiesi.
"Serve amare sé stessi. Tu ti sei dato tanto da fare, hai fatto delle cose bellissime, invidiabili. Hai amato e perdonato i tuoi genitori, amici, fidanzata, sei diventato bello, ma poi cos'è accaduto? E' bastato un rifiuto per farti prendere tutto quello che avevi faticato a costruire e fartelo buttare nella spazzatura come fossero avanzi di una cena andata male! Ora dimmi... per chi l'hai fatto? L'hai fatto per te o per lei?"
L'avevo fatto per lei.
"L'hai fatto per qualcosa che non sei tu. Quello non è amore. Quello era solo desiderio di avere, di ottenere, di essere amato, di colmare un vuoto, di essere migliore, ma per qualcun altro. Di tuo, di amore vero, di sentimento per sé stessi, lì, non c'era nulla. Chiamalo come vuoi, arrivismo, vuoto interiore da riempire. E cos'hai ottenuto? Dimmelo tu!"
Che cosa avevo ottenuto? In tutta la vita e ciclicamente, che cosa avevo fatto?
Avevo ottenuto che ogni cosa costruita era stata edificata su qualcosa o qualcun altro e questi, andandosene, si erano portati via tutto di me.
"Ma chi ha consegnato loro quei pezzi di te?"
Il gufo mi leggeva il pensiero.
"Io!" risposi.
"Riesci a capire che hai fatto tutto tu?" mi domandò.
In realtà faticavo un po' ad accettarlo, ma era vero ed abbastanza evidente, così evidente da non poter essere negato alla ragione.
"Se ti manca una gamba cosa fai? Ti appoggi al primo che passa o provi a costruirtene una tua?"
Ci pensai qualche istante.
Mi ero sempre appoggiato. Sempre delegato.
Sempre rifiutate le colpe. Era più semplice affidare il proprio destino a qualcuno per poi potergli dare tutte le colpe quando le cose non andavano come volevo. Avevo vissuto tutta la vita in quel modo, ma d'improvviso mi resi conto di una cosa fondamentale. Capii che quello che era stato fino ad un attimo prima, non era necessariamente quello che c'era adesso, e che adesso io potevo essere indipendente. Potevo prendere in mano la mia vita e farne qualcosa. Qualsiasi cosa, ma che fosse mia.

Risi rumorosamente ed abbracciai il mio amico!

"Se mi manca una gamba, caro gufo, sai che ti dico? Che me la faccio ricrescere e poi ci ballo sopra!"

Poi, già che c'ero, mi feci spuntare temporaneamente un paio d'ali e feci un giro col mio amico.
Il mondo era davvero bello, non me n'ero mai accorto fino a quel momento.